Quando ebbi il mio primo incontro con il Corvo non dovevo avere più di sei anni. Come ogni sabato mio padre se ne tornava a casa con una videocassetta noleggiata alla videoteca di quartiere e dopo cena, in uno dei pochi momenti in cui la famiglia era tutta riunita, io e mio fratello ci guardavamo il film sprofondati nel divano tra la mamma e il babbo. Il criterio con cui mio padre sceglieva i film mi è tuttora oscuro. Alternava pellicole che sarebbero state giustamente considerate per famiglie a titoli a che invece avrebbero spinto genitori più puritani ad accecare i figli pur di proteggere i loro occhi e le loro menti da certi spettacoli indecenti. Grazie al cielo non ero figlio di questo tipo di genitori e così mi potevo godere liberamente sia Alla Ricerca della Valle Incantata che Point Break.
Rimasi incantato dal film di quella sera ed è forse a questa storia di amore e morte che devo ricondurre varie delle mie fissazioni cinefile, su tutte quella per le ambientazioni urbane notturne, degradate e battute incessantemente da una pioggia sporca, che ricorrono in numerosi dei miei film preferiti.
Per chi è cresciuto negli Anni Novanta e Duemila Il Corvo faceva parte di quel canone dei film di culto che ogni adolescente con anche solo una vaga vena goth doveva aver visto. La pellicola di Alex Proyas sembrava essere fatta su misura per divenire iconica. Una messa in scena estetizzante a metà tra la distopia urbana e il sogno gotico, una storia che mescolava in dosi letali per adolescenti malinconici romanticismo e disperazione, sequenze d’azione che strizzavano l’occhio al cinema di Hong Kong e la marea di citazioni buone per ogni situazione. A suggellare lo status di film maledetto c’era stata poi la tragica morte sul set di Brandon Lee.
In quegli anni Il Corvo era onnipresente, ubiquo. Su una panchina del parco pubblico davanti a casa mia, vergata con uniposca nero, una scritta recitava, “le case bruciano, le persone muoiono ma il vero amore è per sempre.” Ad ogni festa di Carnevale potevi essere sicuro che ci sarebbero stati almeno tre ragazzini con in faccia il make-up che Lee sfoggiava nel film (ruolo poi passato al Joker di Heath Ledger). Su un muro della mia aula di liceo qualcuno aveva scritto “Non può piovere per sempre” e qualcun’altro sotto gli aveva risposto “Infatti oggi grandina”.
Ero proprio in quegli anni inquieti, in cui si vive ogni emozione in maniera apocalittica, eccessiva (e guardandosi indietro, da adulti, spesso patetica) che ebbi il mio secondo incontro con il Corvo. Cercando un regalo per un amica in libreria mi imbattei nella versione in volume del fumetto originale di James O’Barr. Lo comprai e lo divorai. A fine lettura ero scombussolato e scosso. Questo non era il personaggio portato sullo schermo da Proyas e Lee, non era il personaggio che conoscevo. Era qualcosa di simile ma allo stesso tempo drasticamente diverso. E disturbante. Regalai a malincuore il volume e ho dovuto aspettare una decina d’anni prima che mi capitasse di rileggerlo.
Come già detto Il Corvo di O’Barr si muove lungo lo stesso schema narrativo della sua controparte cinematografica. Anche qui abbiamo una giovane coppia massacrata da un gruppo di balordi. Un ragazzo che torna dal mondo dei morti per fare giustizia. La lunga e metodica mattanza dei cattivi e una città in disfacimento sullo sfondo. Ma dove il Corvo cinematografico è in fin dei conti una favola dark, il Corvo a fumetti è una discesa nell’abisso senza fondo della disperazione, del lutto, dell’odio. La trama procede lineare ma non sono tanto gli eventi e l’intreccio a colpire quanto la complessità e la violenza delle emozioni che O’Barr riesce a trasmettere al lettore. La storia che si dipana lungo le pagine a tratti sembra mutare ora in un flusso di coscienza, ora in una fantasia distruttiva e autodistruttiva.
Il Corvo è un fantasma che vaga tenuto in piedi solo dalla sua sete di vendetta e dal dolore della perdita, dolore che né le sadiche esecuzioni dei suoi aguzzini, né la morfina e l’autolesionismo possono placare. È una storia nerissima che si sviluppa in un formicaio urbano imbarbarito, in cui la corruzione morale va di pari passo con la devastazione materiale, un’ambiente che ha avuto tanta fortuna nel cinema, nella letteratura e nel fumetto di quegli anni. O’Barr rese su carta questo mondo e i suoi disgraziati abitanti con un tratto ruvido, netto e dai contrasti brutali, contrapposto allo stile ovattato e naturalista che caratterizza i ricordi della vita terrena del protagonista Eric. Quando le soluzioni visive quasi espressioniste non bastano, O’Barr inframmezza la narrazione con poesie di Rimbaud e Baudelaire e testi di canzoni di band come i The Cure o i Joy Division, quasi a voler dare le coordinate dell’immaginario culturale in cui si sviluppa la storia.
Hemingway diceva che per mettersi a scrivere bisognava mettersi davanti alla macchina da scrivere e sanguinare, che in fondo è ciò che fece O’Barr realizzando questo fumetto. È noto come l’ispirazione per la storia e il suo protagonista gli fu ispirata a suo malgrado da un grave lutto. Se la pellicola può ad un occhio non più giovanissimo risultare stucchevole, il fumetto mantiene dopo tutti questi anni intatta la sua forza e almeno per me, affrontarlo con maggiore maturità mi ha permesso di apprezarlo ancora di più. In un’epoca come la nostra dominata, dal distacco, da una tendenza a non prendersi sul serio che parte spesso proprio dagli artisti, un’opera come quella di O’Barr ricorda come l’arte abbia bisogno, sotto la superficie della forma, di carne e di sangue. E soprattutto che c’è bisogno di un’arte che ci spinga a guardarci dentro, anche in quegli angoli dove stanno cose che preferiremmo non vedere.